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mercoledì 3 ottobre 2012

Il brodo di giuggiole

Frutto oblungo, carnoso, bruno rossiccio, con polpa bianco verde e nocciolo duro. Il sapore è acidulo dolciastro alla maturazione e decisamente dolce nelle giuggiole appassite, considerate una vera golosità, simili ai datteri.
Del giuggiolo, originario dell’Oriente, ed introdotto nei paesi latini al tempo di Augusto, scrive il medico senese Pietro Andrea Mattioli (1500-1577): “Gitta fuori i fiori della medesima origine delle foglie, pallidi e moscosi, onde nascono poi le Giuggiole simili alle olive, prima verdi, poi bianchiccie e nell’ultimo prima gialle e poi rosseggianti, nelle quali è dentro il nocciolo, come d’olive.
Quelle che non sono ben mature hanno la polpa verde al gusto bruschetta, ma nelle mature è gialla e dolce, onde si conosce che le Giuggiole sono temperate così nel calido, come nell’humido. ... Colgonsi le Giuggiole l’Autunno nelle fine di Settembre insieme con i lunghi picciuoli da cui nascono, e legansi in mazzi e sospendonsi per alquanti giorni al sole, e poi a i palchi delle case e come, e come sono impassite, si spiccano da i picciuoli, e conservasi nelle casse per i bisogni.
In Puglia e altri luoghi, dove se ne ricolgono gran quantità, le distendono in su le grati intessute di venchi al sole, fino che si secchino”.
Le piante di giuggiolo erano un tempo presenti in tutta la Romagna dove crescevano rasentando una parete della casa colonica rivolta al sole. E più era intensa la calura e più le sue foglie luccicavano. Foglie che apparivano tardi e cadevano presto così da ispirare una regola salutare alla civiltà contadina romagnola: Smânte quând us amâna e’ zòzle e amânte quând ch’u se smâna” (Svestiti quando si veste il giuggiolo e rivestiti quando si spoglia).
Nel dialetto romagnolo la giuggiola viene definita in più modi – zèzla, zôzla e zézuula – e curiosamente le due zeta le troviamo anche nel termine latino zizyphus vulgaris che a sua volta discende dal greco zìzyphos e due zeta sono anche nel siriaco zuzfa.
Origini e precedenti così importanti non hanno però salvato il termine da distorsioni popolaresche come giuggiolone, termine che indica una persona alquanto ingenua, lenta e non particolarmente sveglia di mente.
Da ricordare anche l’espressione esclamativa “zezula!“, detta con tono di ammirazione e sorpresa per sottolineare un fatto importante o il passaggio di una bella donna o anche nell’assaggiare una dolcissima giuggiola appassita. Un boccone agognato un tempo dai bambini ai quali si imponeva di sputare i noccioli per salvare l’intestino perchè il nocciolo duro ed appuntito e’ fôra el budèl . Le giuggiole, secondo la tradizione, vanno raccolte il 29 settembre – San Michele – come consiglia il proverbio: Par San Michél,/ la zôzla ‘te panir (Per San Michele,/ la giuggiola nel paniere).
Oltre ad essere consumate al naturale, appena mature od appassite, le giuggiole sono utilizzate in pasticceria per confezionare canditi, sciroppi e bevande liquorose. Possono essere anche consumate seccate in forno con fichi secchi e datteri.
Un uso tradizionale è la preparazione del brodo di giuggiole che secondo alcuni studiosi non è altro che una deformazione del detto toscano “Andare in brodo di succiole”, piccole castagne dolci.
Del brodo di giuggiole, da non confondere con un liquore molto diffuso in Veneto, esiste una ricetta popolare romagnola ed una che rimanda alla corte dei Gonzaga dove il brodo di giuggioleera utilizzato per intingere i biscotti secchi.
Per quest’ultima ricetta occorrono un chilo di giuggiole appassite e snocciolate mediante una sbollentata; un cotogno, un limone, 300 g. di zucchero, 300 g. di chicchi di uva bianca e vino della stessa uva o comunque bianco.
Mettere in un pentola le giuggiole, la scorza del limone, l’uva e il cotogno sbucciato e tagliato a pezzetti, aggiungendo acqua fino a ricoprire il tutto. Far bollire una decina di minuti, passare il tutto e rimettere in pentola aggiungendo lo zucchero. Far bollire per circa un’ora, fino ad ottenere una sorta di sciroppo aggiungendo la necessaria quantità di vino e quindi invasare. (Beppe Sangiorgi)

Cotogno

Habitat
È originario di una zona vasta a Nord dell'Iran e delimitata dal Mar Caspio e della catena Caucasica. È coltivato in tutti i paesi del bacino del mediterraneo. In Italia viene coltivato in quasi tutte le regioni.
 
DESCRIZIONE BOTANICA
Il cotogno è una pianta arborea alta fino a 6-7 m con una chioma che può raggiungiere una larghezza di 5 m. L'apparato radicale è superficiale, il tronco è contorto con corteccia bruno nerastra e con rami giovani finemente pelosi.
Sui rami di 1-2 anni la corteccia è liscia di colore marrone scuro. Le foglie sono ovali, oblunghe, stipolate, consistenti di colore verde scuro sulla pagina superiore e ricoperte di una peluria grigia inferiormente.
I fiori si formano sui rametti corti dei rami di 1 o più anni, sono bianchi o rosa pallido con diametro di 4-5 cm. La fioritura è tardiva e avviene dopo quella del pero e del melo verso la fine di aprile, prima metà di maggio. Il frutto è di dimensioni variabili, di forma rotondeggiante e oblunga, talvolta gibboso ed irregolare, molto profumato e giallo alla maturazione.
 
È ricoperto di una fitta peluria di colore castano chiaro che si elimina facilmente quando il frutto è maturo. La polpa è di colore giallo chiaro consistente,non molto fine e di sapore poco dolce, acidulo e molto astringente per l'elevato contenuto in tannino. I semi sono numerosi, hanno forma irregolare e spesso sono raggruppati insieme per effetto di formazioni mucillaginose.
 
Varietà
Il cotogno viene spesso definito impropriamente come melo e pero con i quali non ha niente a che fare. Il cotogno da frutto non va confuso con i comuni cotogni selezionati per fare portainnesti del pero, del sorbo, del nespolo, dell'azzeruolo etc. Le varietà di cotogno sono numerose e per facilità vengono classificate in due gruppi:
- frutti a forma di mele con le varietà di Portogallo, di Tencara, di Mallesca;
- frutti a forma di pera: gigante di Vranic, De Le Scovatz, De Berecsk, di Smirne.

TECNICA COLTURALE

Propagazione
 Si ricorre alla semina solo se servono piantine per fare dei portainnesti. Generalmente si utilizza la tecnica dell'innesto. I portainnesti possono essere piante di biancospino che riducono la vigoria e lo sviluppo del cotogno formando un grosso callo nel punto di innesto; il cotogno da seme o le selezioni di cotogno di provenza, BA29, CTS212; il pero e l'azzeruolo.
Anche con la talea legnosa, prelevata in ottobre-novembre e lunga 2O-3O cm, unitamente ad una porzione di ramo portante, dà origine a nuove piantine. Vengono spesso utilizzate la radicazione dei polloni e la propaggine.
 
Terreno e Clima
Il cotogno avendo apparato radicale superficiale risente della siccità persistente. È sensibile al calcare del terreno. Predilige terreni freschi, profondi, permeabili, ricchi di sostanza organica e senza ristagni idrici. La pianta non soffre le brinate tardive in quanto la fioritura avviene in ritardo. Sopporta temperature invernali anche di -3O°C
 
Allevamento
L'impianto si esegue in posizione soleggiata da novembre a marzo. Le lavorazioni del terreno devono essere superficiali e dove è possibile irrigare si può ricorrere all'inerbimento del terreno. La forma più adottata di allevamento del cotogno è quella ad alberello o libera con l'impalcatura a 15O cm dal terreno. La pianta entra in produzione al 3°-4° anno dall'impianto.
La potatura di produzione deve avvenire con un numero di tagli ridotti limitandosi ad asportare i rametti danneggiati e quelli troppo fitti; questa operazione spesso si esegue ad anni alterni. Una potatura razionale, eseguita annualmente spesso riduce l'alternanza di produzione.
Andranno periodicamente asportati i ricacci di polloni dal ceppo che si verificano quando si usano portainnesti come il biancospino e il cotogno. L'apporto di letame è sempre consigliabile.
 
Avversità
Normalmente non si riscontrano grossi attacchi fungini e parassitari. Le malattie che colpiscono il cotogno sono le stesse del melo.Si segnala la presenza di carcocapsa o verme dei frutti ai primi di luglio o di agosto. La monilia deturpa i frutti colpiti.
 

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I Frutti dimenticati (Indice)


Nome comune:Azzeruolo Nome botanico:Crataegus azarolus L
Famiglia:Rosaceae Nome dialettale: Pom Rejèl
Nome comune:Castagna Nome botanico: Castanea
Famiglia: Fagaceae Nome dialettale:Castâgna, marôn
Nome comune:Corbezzolo Nome botanico:Arbutus unedo L.
Famiglia:Ericaceae Nome dialettale:Corbezzol, Corbezzel
Nome comune:Corniolo Nome botanico:Cornus mas L.
Famiglia:Cornaceae Nome dialettalee:Cornél, Corgnolo

Nome comune:Mela e/o pera cotogna Nome botanico:Cydonia oblonga L.
Famiglia:Rosaceae Nome dialettale:Mel cudogn

Nome comune:Giuggiolo Nome botanico:Zizyphus sativa Gaertner
Famiglia:Ramnaceae Nome dialettale:Zizel, zezzul, zozla

Nome comune:Lampone Nome botanico:Rubus idaeus L.
Famiglia:RosaceaeNome dialettale:Frambos, Framboa

Nome dialettale: amândla, mândla, amândula

Nome comune: Mela Nome botanico: Malus domestica
Famiglia: Rosacee Nome dialettale: Méla

Nome comune:Mela da rosa Nome botanico:Pyrus malus L.
Famiglia:Rosaceae Nome dialettale:Méla

Nome comune:Melograno Nome botanico:Punica granatum L.
Famiglia:Punicaceae Nome dialettale:Melagarnè

Nome comune: Mora di gelso Nome botanico: Morus celsa
Famiglia: Oleaceae Nome dialettale: Môra
Nome comune:Nespolo Nome botanico:Mespilus germanica L. 
Famiglia:Rosaceae Nome dialettale:Nespola, Nespula

Nome comune:Nocciola Nome botanico:Corylus avellana
Famiglia: Betulacee Nome dialettale: Avulâna

Nome comune:Noce Nome botanico: Juglans regia
Famiglia: Jugladacee Nome dialettale: Nusa, nòsa, cocla

Nome comune:Pera volpina Nome botanico:Pyrus communis L.
Famiglia:Rosaceae  Nome dialettale:Pera volpèna
Nome comune:Prugnola Nome botanico:Prunus spinosa L.
Famiglia:Rosaceae  Nome dialettale:Brugnò,Brugnol   

Nome comune:Sorba Nome botanico:Sorbus Domestica L. 
Famiglia:Rosaceae  Nome dialettale:Sorb, Sorbel


Corbezzolo nella gastronomia

La pianta è un arbusto sempre verde, invadente, folto, cespitoso, vigoroso, scuro, meravigliosamente solare (per lo più estraneo alla nostra tradizione di regione tendenzialmente settentrionale), caratteristico della macchia mediterranea, ove cresce sia lungo le coste che negli entroterra collinari; cresce spontaneo, ma anche coltivato, in siepi e come pianta ornamentale; ama particolarmente i climi caldi e temperati, i terreni fertili ma anche quelli sassosi; cresce per disseminazione spontanea.
I frutti, peraltro in genere non molto considerati, sono talvolta stimati come una falsa fragola (o "cerasa marina" in altre zone del sud), di colore rosso vistoso; maturano nel tardo autunno, quando sbocciano i nuovi fiori; la loro polpa è gialla, di sapore gradevole, dolce e nel contempo acidulino. Contengono vitamine, acidi, zuccheri, pectina, sostanze coloranti.
Consumati al naturale risultano rinfrescanti e assai digeribili. I frutti, peraltro molto appetiti dagli uccelli, vengono chiamati anche albatre, sono bacche perfettamente sferiche, del diametro di 2 cm circa, dalla buccia spessa e aranciata, con numerose escrescenze di colore rosso vivo, che le danno un aspetto spinoso.
Maturi, sono altresì morbidi al tatto e dolci, la maturità va comunque comprovata; altrettanto buoni tanti dei frutti caduti. In questa occasione ne parliamo quasi per dovere, in realtà la presenza del corbezzolo nelle nostre colline è appena significativa, in quanto trova un habitat quasi al limite della sua sopravvivenza, un po' come per l'ulivo.

Nella sua pianta troviamo singolarmente e presenti in contemporanea i frutti dell'annata precedente e i nuovi fiori (peraltro molto belli) a forma di grappolo e di recente fioritura. Tornando alla pianta va segnalata la sua peculiarità tirrenica anzichè adriatica e isolana, fascinosa perchè alle porte del periodo natalizio, si riveste di tanti palloncini colorati, dominati da vari colori (giallo, arancio, rosso vivo, cremisi scuro), in coincidenza con la maturazione dei suoi frutti ( che a seconda delle zone maturano in tempi scalari da ottobre a dicembre), delicate, morbide, palline colorate.
Mentre dunque i corbezzoli maturano i tantissimi fiorellini bianchi ricoprono la pianta e offrono all'attento ascolto profumi delicati (legati alla produzione di uno straordinario e personalissimo miele monoflora di corbezzolo, di rara produzione). L'esplodere contemporaneo di fiori e frutti hanno conferito alla pianta fama religiosa, festosa, mitica e leggendaria.

La raccolta è particolarmente significativa perchè in ordine di tempo chiude la serie dei frutti autunnali e dimenticati, e l'inverno inesorabile mette la parola fine su ogni tipo di raccolta. Ritornando alla pianta, se ne consiglia la coltivazione nel giardino o nell'orto, nei cortili di casa, ma nella zona rigorosamente più soleggiata e riparata, in modo da aiutarla a sopravvivere ottimamente e fornire in abbondanza i suoi frutti per quasi tutte le annate. Si riproducono per disseminazione, fenomeno che si realizza in tempi lunghissimi anche in questo caso, per cui è consigliabile rivolgersi a vivaisti, selezionando piante già cresciute alcuni anni, quindi in grado di affrontare adeguatamente gli inverni.

Come utilizzare i corbezzoli
I corbezzoli si consumano al naturale; in vari modi assieme a zucchero e limone; in conserve; gelatine; sciroppi; canditi; bevande fermentate; acquavite; vino omonimo; in una particolare insalata; nelle composte di frutta. Se ne ottiene una marmellata a seguito di breve bollitura dei frutti, che poi vanno attentamente setacciati (per eliminare dalla polpa i semini); poi si unisce zucchero (nella quantità poco più superiore alla metà del peso della frutta) e si raddensa sul fuoco. La marmellata si può arricchire con qualche frutto intero bollito. I corbezzoli si conservano sotto spirito come si fa per le ciliegie; secondo la tradizione sarda si lasciano macerare i frutti in acqua, poi vengono distillati, ottenendo una particolarissima acquavite, alla quale vengono attribuiti proprietà "euforizzanti". Per tradizione i frutti si conservano all'ombra, in sacchetti di carta o di tela, in luoghi asciutti e ventilati.

Ricette proposte
Corbezzoli sciroppati. Nel solito vaso a chiusura ermetica si mettono i corbezzoli (consideriamo 500 gr. di frutti); zucchero semolato (250 gr. metà dei corbezzoli); scorzette di giallo di limone non trattato; erbe officinali fresche (erba limoncella o erba luigia); alcool sufficiente a riempire il vaso. Questo va agitato di tanto in tanto, per agevolare il processo di macerazione e lo scioglimento dello zucchero; indi si lascia maturare e affinare il composto. Dalla primavera successiva i deliziosi e ancora coloratissimi corbezzoli serviranno per guarnire dolci e dessert.

Indice >>>

La Festa dei frutti dimenticati

I prodotti delle piante da frutto domestiche o spontanee che un tempo crescevano vicino alle case coloniche, nei campi o nei boschi, erano destinate, quasi esclusivamente, al consumo domestico o al piccolo mercato locale così che erano un tutt’uno con la cultura, la mentalità e i modi di vita della popolazione contadina del passato, condividendone anche la repentina scomparsa.
Oggi mangiare castagne, noci, nocciole, sorbe, giuggiole, corniole, mele da rosa, pere volpine, azzeruole, melagrane e così via, rappresenta un piacere del palato ed un recupero del patrimonio culturale e materiale del passato, a cominciare dalle abitudini alimentari che portavano a consumare quei frutti, conservati nei solai, nelle lunghe e fredde sere di veglia. 
Frutti che aiutavano anche a combattere meglio il freddo dell’inverno grazie al loro potere calorico: il gheriglio della noce, ad esempio, costituisce un alimento quasi completo, con un altissimo numero di calorie.
Questi frutti rappresentavano gli strumenti della sopravvivenza anche dal punto di vista psicologico: mettere al riparo nei grandi solai noci, avellane, mandorle, castagne, melegrane, nespole, pere, mele e sorbe, in attesa della maturazione o per la conservazione dava sicurezza e permetteva di affrontare l’inverno con la consapevolezza che, in ogni caso, c’era qualcosa da mangiare, così com’era o insieme al pane.
Oggi ritornano, grazie ad agricoltori che, per amore o nostalgia del passato, hanno sollevato dalla morte vecchie piante o ne hanno collocate di nuove grazie anche ad iniziative come quella della "Festa dei frutti dimenticati" di Casola Valsenio.
Una festa che li ripropone all’attenzione di turisti, visitatori, studiosi e di chi non li ha finora conosciuti sotto l’aspetto alimentare, ma solo come elementi identificativi di una condizione ambientale ed umana tipica della collina faentina fino alla metà di questo secolo.
Recuperando i frutti di un tempo non si ritrovano solo i sapori del passato, ma si recupera anche un mondo fisico e culturale che ci riavvicina alla natura, ad un modo di vivere e di alimentarci più semplice e più sano e che permette anche di riallacciare i legami con la cultura popolare contadina in tutte le sue espressioni così da poter ricordare e capire il passato.

I Video

I Video di Antenna 306



Festa Dei Frutti Dimenticati a Casola Valsenio
Reportage dalla festa dei frutti dimenticati 2008. Durata: 4Testi: Giuseppe Sangiorgi
Riprese: Luca Baldassarri Montaggio: Paride Ridolfi



Festa Dei Frutti Dimenticati a Casola Valsenio
Reportage dalla festa dei frutti dimenticati 2011 Durata: 3Riprese e Montaggio: Paride Ridolfi