mercoledì 3 ottobre 2012

Recupero culturale

Recuperando i frutti di un tempo non si ritrovano solo i sapori del passato, ma si recupera anche un mondo fisico e culturale che ci riavvicina alla natura, ad un modo di vivere e di alimentarci più semplice e più sano, che permette anche di riallacciare i legami con la cultura popolare contadina in tutte le sue espressioni, così da poter ricordare e capire il passato. Solo a nominare frutti come le azzeruole, le corniole, le nespole, le sorbe, le castagne, viene alla memoria il ricordo della collina di un tempo, con le consuetudini, la sua gente, le abitudini alimentari, le case coloniche, i cui nomi in qualche caso hanno avuto origine proprio da quei frutti.
In comune di Casola Valsenio troviamo Bagarello (Trario) che rimanda a baca o bacarello, cioè al sorbo selvatico; Castagnardizzo (Settefonti), Castagnarda (Montefiore), Maroneto (Sant'Andrea) e Castagneto (Mongardino) che richiamano un terreno a castagni; Cornazzano (Riovalle) lascia intendere l'esistenza di un boschetto di cornioli o comunque di un terreno impiantato a cornioli; Melatella e Meleda (Settefonti) richiamano un boschetto di meli ed infine Sorbatella (S.Rufillo), cioè boschetto di sorbi.

I frutti in questione sono entrati anche nella cultura popolare della collina faentina attraverso i proverbi, gli indovinelli, i modi di dire e addirittura le previsioni del futuro.
I proverbi sono sentenze nate dalla esperienza e dalla osservazione e trasmesse oralmente ( la rima serve infatti per ricordarle meglio) di generazione in generazione, come regole di vita ed espressione della saggezza popolare. La caratteristica del giuggiolo di essere l'ultima pianta a germogliare a primavera e la prima a spogliarsi in autunno serviva, ad esempio, per ricordare una proverbiale regola salutare: Smânte quând us amâna è zòzle, e amânte quând ch'u se smâna (Svestiti quando si veste il giuggiolo e vestiti quando si spoglia). Ed ancora c'era sempre chi ricordava che E prem frot l'è la mandulâna,/ l'ultum l'è la nespulâna (Il primo frutto è la mandorlina,/ l'ultimo è la nespolina), oppure Per San Martèn,/ nèspul e bon vèn, cioè per San Martino (11 novembre) si devono mangiare le nespole e bere vino.

I contadini romagnoli, durante le veglie invernali nelle stalle, praticavano spesso il gioco dell'indovinello. Era un esercizio di agilità mentale, un passatempo ed anche un motivo di allegria a cui partecipavano adulti e bambini, uomini e donne, che a turno dovevano indovinare oggetti di casa o attrezzi da lavoro, funzioni umane, sentimenti e aspetti della natura: insomma tutto ciò che stava loro attorno, nascosto sotto una veste apparentemente misteriosa. Per i bambini rappresentava anche un mezzo di acculturazione, di conoscenza del mondo in cui si sarebbero poi trovati a vivere, degli oggetti che avrebbero poi usato o degli alimenti di cui si sarebbero poi nutriti, compresi quei frutti che maturavano negli alberi vicini alla casa colonica come noci, ciliegi, nespoli, sorbi, azzeruoli, cotogni.
Uno degli indovinelli più famosi riguarda la noce: A j o ôna matrena znena znena:/ u-j sta quatar tirazen d'pâ (Ho una madiettina piccola piccola:/ ci stanno quattro tierine di pane).

La melagrana si nascondeva sotto questi versi: Grôs cum 'na pagnoca,/ stil cum 'na garnêla d'grân,/ dòlz cum e mél,/ amêr cum e fél (Grosso come una pagnotta,/ sottile come un chicco di grano,/ dolce come il miele,/ amaro come il fiele). Curioso e molto astuto è anche l'indovinello che si riferisce alla conformazione delle nespole, così descritte: Zânqv êl e zanqv òs/ al n'è bôni d'saltè un fòs (Cinque ali e cinque ossa/ non sono capaci di saltare un fosso).
Una delle caratteristiche degli indovinelli romagnoli, anche di quelli proposti in presenza dei bambini, era il doppio senso, cioè la metafora di carattere sessuale che lasciava intendere una risposta che si rifaceva ad organi o atti sessuali mentre quella giusta rimandava ad oggetti comuni o innocenti attività del vivere quotidiano.

Gli indovinelli con il doppio senso erano visti con molta indulgenza, trattandosi in fondo di un innocente divertimento, tanto che un parroco di S. Maria in Carpinello di Forlì ha lasciato, all'inizio del '700, una raccolta di "Indovinelli fatti in lingua rusticale e vernacula per passare la malinconia e l'otio della villa" tra i quali molti presentano un accentuato doppio senso.
Ecco come viene descritta sotto metafora la noce: Tant la m'tira, tant la m'slerga/ ch'la me squarza la mi braga;/ poi la mena in su due bott/ e la m'amaca il mi palot (Tanto mi tira e tanto mi si allarga/ che mi squarcia le mie brache;/ poi batte sopra due colpi/ e mi ammacca le mie pallotte). La mela da rosa è invece nascosta sotto queste rime: A i ho pur bella cosa,/ ma a l'ho querta e l'ho nascosa;/ s'u la vdis al mi moros/ u la uvreb, ch'l'è trop golos (Ho pure la bella cosa,/ ma l'ho coperta e l'ho nascosta;/ se la vedesse il mio moroso/ la vorrebbe, ché è troppo goloso).

Come è naturale, anche i modi di dire, cioè quelle espressioni che prendono a riferimento aspetti della natura per indicare o esaltare virtù, difetti o pregi degli esseri umani, hanno attinto a piene mani dai frutti che consumavano i contadini. Per indicare una persona di bell'aspetto ma di animo cattivo si diceva: L'é la fôla dla bèla avûlana: dâtre l'é bròtta e fôra l'sana (è la favola della bella avellana: dentro è brutta e fuori è sana). Numerosi sono i modi di dire che si rifanno alle mele, uno dei frutti più diffusi tra la popolazione della campagna.
Di un volto roseo che sprizzava salute si diceva: L'ha 'na faza cum 'na mela da rôsa (Ha un viso come una mela da rosa); mentre una donna soda e piena veniva descritta così: La pé 'na mela garnida (Sembra una melagrana).
Di qualcosa che è acerbo o che allappa si dice: Asérb cum 'na mela cudogna (Acerbo come una mela cotogna). E chi protestava invano per cose più grande di lui, veniva commiserato con: Ona nus 'te sac la fa poc armôr (Una noce nel sacco fa poco rumore).
Molti di questi modi di dire sono sopravvissuti al tramonto della civiltà e della cultura contadina e sono stati assorbiti dalla nostra società, continuando ad essere utilizzati anche da chi cita giuggiole e nespole senza averle mai assaggiate. Oggi infatti non è raro udire "Col tempo e con la paglia maturano le nespole", nel senso che ogni lavoro richiede il suo tempo.
Un altro modo di dire tuttora diffuso è l'"Andare in brodo di giuggiole", per indicare lo struggersi dalla contentezza o dal piacere. In realtà le giuggiole non c'entrano perché non fanno brodo. La frase è piuttosto la corruzione di un precedente "andare in brodo di succiole", come è chiamata nell'uso popolare toscano la ballotta, cioè la castagna cotta nell'acqua con la sua scorza, ma sempre di frutto dimenticato si tratta.

L'economia contadina, e spesso la stessa sopravvivenza della famiglia colonica, dipendeva dal buon andamento della stagione agricola e del raccolto. Per questo in passato erano numerose le pratiche rituali per conoscere o favorire il futuro, cercando di interpretare i segni che la natura mandava.
Particolare attenzione era rivolta alla crescita delle noci perché, come affermava la tradizione, quând che al nôs al ven a quatar, / u j è de pân par tot al matar (Quando le noci sono raggruppate per quattro,/c'è pane per tutte le madie), mentre, all'opposto, quând che la nôs la fa è castlèt,/quei ch'i ha dè grân ch'i 'l tegna stret (Quando la noce fa il castelletto,/quelli che hanno del grano lo tengano stretto).
Ovviamente era importante anche conoscere ciò che riservava il futuro nel campo della salute, dell'amore, del denaro e dell'andamento familiare, in primo luogo le morti e le nascite. Per questo si osservava la produzione dei noccioli perché il proverbio sosteneva che "Annata di noccioli, manata di figlioli". La nocciola, per il solido involucro è infatti considerata fin dall'antichità l'immagine del bambino racchiuso nell'alvo materno.

Recuperando gli antichi frutti, si recupera anche il loro patrimonio simbolico, un aspetto non secondario per una società apparentemente moderna e razionale qual è la nostra, ma ancora sensibile al mistero; a ciò che ci sta attorno ma non comprendiamo; alle influenze positive o negative degli astri e della natura che cerchiamo di interpretare e conoscere anche attraverso le sue espressioni materiali, come le piante e i loro frutti. Si tratta di simboli che spesso vengono da culture molto lontane e che sono arrivati fino a noi attraverso il filtro delle generazioni che sono seguite l'una all'altra.
Gli antichi, ad esempio, consideravano i cotogni simbolo di felicità coniugale. Per legge di Solone si faceva tributo agli sposi ateniesi di cotogni e i romani ne decoravano le erme tutelari dei talami nuziali. L'origine probabilmente si deve alla prerogativa di questo frutto di conservare il suo profumo, così che il cotogno è anche il simbolo della costanza. Nelle vecchie case contadine romagnole era diffusa l'abitudine di porre una fila di cotogni sull'armadio della camera da letto per profumare la stanza grazie alla loro fragranza persistente.
La castagna, che nella valle del Senio è conosciuta soprattutto nella più pregiata varietà del marrone, rappresenta per la forma e il nome che la assimilano ad un testicolo, un segno di fertilità, di vitalità e di potere generativo. Per questo la sera del 25 novembre, Santa Caterina, che tradizionalmente dava inizio all'inverno, era usanza che il moroso facesse visita alla fidanzata facendosi precedere dal bracco, una persona anziana ed esperta incaricata di far filare tutto liscio fino al matrimonio, il quale reggeva un sacchetto di marroni che, cotti sulla fiamma del focolare o bolliti con le foglie di alloro, avrebbero rallegrato i convenuti e favorito un matrimonio ricco di figli.


Anche il passaggio dell'anno era un momento propizio per i riti divinatori cioè per prevedere e favorire il futuro. Nel mondo contadino di un tempo il periodo di passaggio da un anno all'altro iniziava per Natale e terminava la notte dell'Epifania, dedicata agli ultimi e più importanti riti per i quali, per i motivi detti, si utilizzavano le castagne.

Tra gli Usi e pregiudizj dei contadini della Romagna raccolti da Michele Placucci in occasione della rilevazione napoleonica del 1811, troviamo a proposito della Epifania: "Nella sera poi si estrae la così detta ventura. Si uniscono in numerosa comitiva di parenti, di amici; e se hanno castagne tante ne prendono, quante sono le persone, ed in vece di quelle, tanti grani di formentone, o di fava, tra i quali uno ne segnano: poi si dispensano per vedere a chi tocca la ventura, la lestezza, la pigrizia, l'accorgimento, e quante altre fantoccerie vengono ad essi in capo; e quelli a cui volta per volta tocca la castagna, o grano segnato, quegli è il fortunato, ed ottiene per la ventura il premio depositato, quello è il più lesto, il più pigro, il più accorto".