mercoledì 3 ottobre 2012

Recupero materiale

La ripresa di interesse verso piante e frutti messi in disparte nell'ultimo dopoguerra, significa recupero materiale di quei frutti come alimento e "medicina" naturale e recupero di quelle piante come elementi tipici del paesaggio della collina romagnola.
Per quanto riguarda l'aspetto alimentare e nutrizionale, se ne parlerà nella secondo parte, frutto per frutto, per lasciare invece qui spazio alle piante e al potere medicamentoso e salutare di gran parte dei piccoli frutti autunnali. Un aspetto importante per la sopravvivenza della popolazione contadina della collina che abitava in case lontane dai centri abitati, dove si trovavano i medici condotti, e che quasi sempre non era in condizioni economiche tali da potersi approvvigionare delle medicine necessarie. Da qui la necessità di trovare sul posto le "medicine" o i mezzi per curarsi delle piccole afflizioni, rappresentati da erbe e frutti, i cui poteri erano conosciuti soprattutto dalle donne, che univano al piacere del palato un qualche effetto salutare.


Contro le scottature era particolarmente efficace un unguento ricavato dalle noci che, spezzate a metà e calate intere nell'olio della padella, producevano un liquido denso, da filtrare subito dopo la bollitura. Curiosa era anche la preparazione di un altro unguento con i gusci di noce che venivano riempiti di olio e sego di pecora ed allineati sulla graticola. Dai minuscoli tegamini a barchetta si estraeva un unto da impastare a freddo sulla ustione, con un ciuffetto di peli di gatto. A loro volta le giuggiole facevano parte, insieme ai datteri, ai fichi e all'uva passa, dei cosiddetti quattro frutti pettorali ed entravano quindi nella formula di molte pozioni pettorali ed emollienti. La marmellata di more veniva somministrata ai bambini afflitti dal mal di gola che però dovevano resistere alla golosità per mangiarla molto lentamente, perché potesse produrre qualche effetto sulla parte malata. Un trattato del XVIII secolo ricorda che "i melagrani o pomi granati, sono un ottimo frutto per diversi cibi, ma spezialmente per ristorare i febricitanti, spegnendo in loro l'ardente sete dalle cocenti febri generata".
 
La ripresa di interesse verso i deliziosi frutti che si producevano e si consumavano un tempo nella collina romagnola è stata accompagnata da un ugual interesse verso le piante che li producono, per ricostituire quelle piccole macchie di verde e di colore formate da noci, avellani, sorbi, nespoli, giuggioli, melograni, gelsi, mandorli, sorbi, azzeruoli che, insieme ad altre piante, fiancheggiavano le case coloniche di un tempo. Non solo: queste piante possono abbellire i giardini pubblici e privati, soffocati da piante sempreverdi "forestiere", con forme e colori che oggi appaiono nuovi e soprattutto possono restituirci il senso della stagionalità attraverso il cambiamento dei colori, la crescita e la caduta delle foglie e così via.

Un recupero che ben illustra Luciano Palotti che sulla rivista Romagna,ieri, oggi, domani, ha tenuto per molto tempo una rubrica sulle piante dimenticate. "Uno dei caratteri distintivi dei giardini delle nostre città - scrive Palotti - è, nella generalità dei casi, la cattiva scelta delle specie arboree utilizzate. Questo aspetto è oltremodo evidente negli esigui spazi verdi delle case costruite nel periodo che va dall'immediato dopoguerra fino a metà degli anni Settanta. Il ricorso a materiale scadente, purché fosse verde e di scarso impegno finanziario, era prassi ricorrente. L'uso indiscriminato di abeti, cedri, cipressi dell'Arizona era giustificato dal loro facile reperimento... Questi alberi si sono rapidamente trasformati in cupi e fastidiosi giganti. Sollevano muretti e marciapiedi con le loro radici, non permettono l'utilizzo degli spazi sottostanti la loro ampia chioma, nei quali assai raramente cresce il prato o fiorisce un arbusto.

Con i loro minuscoli aghi intasano fognature e grondaie, i rami sia addossano ai muri e quasi pretendono di entrare dalle finestre, attraverso le quali la luce non filtra mai, né in estate, tanto meno in pieno inverno... La visione d'insieme poi è poco apprezzabile: intere vie monocolore pressochè prive di fioriture, senza un fogliame diverso dall'altro. Tutto è verde cupo, in ogni stagione, e tutto è esageratemente grande. E pensare che la possibilità di scelta delle piante ornamentali é di una vastità incredibile, sia per dimensioni, sia per forme e colori. Prendiamo ad esempio un alberello poco esigente, dalla chioma arrotondata, estremamente economico nell'acquisto, generoso di splendidi fiori e di squisiti frutti, con una variopinta tavolozza di colori autunnali: il nespolo".

Altre piante possono vantare la stessa bellezza, ed anche superiore, come è il caso del melograno e del giuggiolo. "Tutti gli alberi ed arbusti che i nostri contadini piantavano in prossimità delle case coloniche - ricorda Luciano Palotti - avevano prima di tutto una funzione pratica: ogni pianta non veniva messa a dimora casualmente, ma per fornire cibo e cure per malanni, oppure alimenti e riparo al bestiame, o per mitigare gli eccessi del clima. La funzione estetica era solamente un aspetto secondario.
Pochissime specie hanno avuto il privilegio di essere ospitate principalmente per la loro bellezza; di queste nelle nostre campagne due hanno sempre avuto un posto di rilievo: il giuggiolo ed il melograno... Basti pensare al fatto che il loro fogliame non perde mai la sua straordinaria brillantezza, neppure quando la calura e la siccità estive fanno assumere a tutte le altre piante un aspetto sofferente e dimesso...Splendidi esemplari di giuggiolo esistono ancora qua e là a ridosso di muri e ruderi, sempre in posizione riparata e ben soleggiata, segno che la loro coltivazione era comunque assai diffusa. In questi posti esso esalta la propria bellezza, dimostrando il detto che ha il potere di rendere esteticamente gradevoli luoghi e stazioni anche poco belle. è evidente pertanto che l'utilizzo di questo alberello, specialmente nei giardini moderni, spesso assai poveri di bellezza, è quanto mai opportuno".