Frutto oblungo, carnoso, bruno rossiccio, con polpa bianco verde e nocciolo duro. Il sapore è acidulo dolciastro alla maturazione e decisamente dolce nelle giuggiole appassite, considerate una vera golosità, simili ai datteri.
Del giuggiolo, originario dell’Oriente, ed introdotto nei paesi latini al tempo di Augusto, scrive il medico senese Pietro Andrea Mattioli (1500-1577): “Gitta fuori i fiori della medesima origine delle foglie, pallidi e moscosi, onde nascono poi le Giuggiole simili alle olive, prima verdi, poi bianchiccie e nell’ultimo prima gialle e poi rosseggianti, nelle quali è dentro il nocciolo, come d’olive.
Quelle che non sono ben mature hanno la polpa verde al gusto bruschetta, ma nelle mature è gialla e dolce, onde si conosce che le Giuggiole sono temperate così nel calido, come nell’humido. ... Colgonsi le Giuggiole l’Autunno nelle fine di Settembre insieme con i lunghi picciuoli da cui nascono, e legansi in mazzi e sospendonsi per alquanti giorni al sole, e poi a i palchi delle case e come, e come sono impassite, si spiccano da i picciuoli, e conservasi nelle casse per i bisogni.
In Puglia e altri luoghi, dove se ne ricolgono gran quantità, le distendono in su le grati intessute di venchi al sole, fino che si secchino”.
Le piante di giuggiolo erano un tempo presenti in tutta la Romagna dove crescevano rasentando una parete della casa colonica rivolta al sole. E più era intensa la calura e più le sue foglie luccicavano. Foglie che apparivano tardi e cadevano presto così da ispirare una regola salutare alla civiltà contadina romagnola: Smânte quând us amâna e’ zòzle e amânte quând ch’u se smâna” (Svestiti quando si veste il giuggiolo e rivestiti quando si spoglia).
Nel dialetto romagnolo la giuggiola viene definita in più modi – zèzla, zôzla e zézuula – e curiosamente le due zeta le troviamo anche nel termine latino zizyphus vulgaris che a sua volta discende dal greco zìzyphos e due zeta sono anche nel siriaco zuzfa.
Origini e precedenti così importanti non hanno però salvato il termine da distorsioni popolaresche come giuggiolone, termine che indica una persona alquanto ingenua, lenta e non particolarmente sveglia di mente.
Da ricordare anche l’espressione esclamativa “zezula!“, detta con tono di ammirazione e sorpresa per sottolineare un fatto importante o il passaggio di una bella donna o anche nell’assaggiare una dolcissima giuggiola appassita. Un boccone agognato un tempo dai bambini ai quali si imponeva di sputare i noccioli per salvare l’intestino perchè il nocciolo duro ed appuntito e’ fôra el budèl . Le giuggiole, secondo la tradizione, vanno raccolte il 29 settembre – San Michele – come consiglia il proverbio: Par San Michél,/ la zôzla ‘te panir (Per San Michele,/ la giuggiola nel paniere).
Oltre ad essere consumate al naturale, appena mature od appassite, le giuggiole sono utilizzate in pasticceria per confezionare canditi, sciroppi e bevande liquorose. Possono essere anche consumate seccate in forno con fichi secchi e datteri.
Un uso tradizionale è la preparazione del brodo di giuggiole che secondo alcuni studiosi non è altro che una deformazione del detto toscano “Andare in brodo di succiole”, piccole castagne dolci.
Del brodo di giuggiole, da non confondere con un liquore molto diffuso in Veneto, esiste una ricetta popolare romagnola ed una che rimanda alla corte dei Gonzaga dove il brodo di giuggioleera utilizzato per intingere i biscotti secchi.
Per quest’ultima ricetta occorrono un chilo di giuggiole appassite e snocciolate mediante una sbollentata; un cotogno, un limone, 300 g. di zucchero, 300 g. di chicchi di uva bianca e vino della stessa uva o comunque bianco.
Mettere in un pentola le giuggiole, la scorza del limone, l’uva e il cotogno sbucciato e tagliato a pezzetti, aggiungendo acqua fino a ricoprire il tutto. Far bollire una decina di minuti, passare il tutto e rimettere in pentola aggiungendo lo zucchero. Far bollire per circa un’ora, fino ad ottenere una sorta di sciroppo aggiungendo la necessaria quantità di vino e quindi invasare. (Beppe Sangiorgi)