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mercoledì 3 ottobre 2012

Autori e Bibliografia

I testi sono stati tratti dalle seguenti pubblicazioni :



I frutti dimenticati:storia e tradizione popolare
di Giuseppe Sangiorgi
E.C.A.P Via P. Matteucci 15 - 48100 Ravenna - Telefax 0544/39474
Progetto grafico Paolo Pasini
Stampa Tipografia Stile


La gastronomia dei frutti dimenticati
di Graziano Pozzetto
a cura di Rosa Banzi
E.C.A.P. Via P. Matteucci 15 - 48100 Ravenna - Telefax 0544/39474
Progetto grafico Paolo Pasini
Fotografie fornite da Roberto Savelli ed Ercole Lega
della Locanda Senio
Illustrazioni Vilma Ziveri
Stampa Tipografia Stile



Indagine agronomico-colturale e di mercato sui frutti dimenticatia cura di Rosa Banzi
Autori Sauro Biffi - Debora Pelasgi
con il contributo di Francesco Rinaldi Ceroni
E.C.A.P Via P. Matteucci 15 - 48100 Ravenna - Telefax 0544/39474
Progetto grafico Paolo Pasini
Fotografie fornite da Roberto Savelli, Sauro Biffi
Stampa Tipografia Stile



                 
                  Bibliografia

Massimo Montanari, Contadini di Romagna nel Medioevo, Bologna, Editrice Clueb, 1994.
Sanzio Bombardini, "Il passaggio di Papa Giulio II da Monte Battaglia", Giornata di studi su Monte Battaglia - 21 luglio 1973, ciclostilato.
Luigi Poggiali, "Appunti storici desunti dal manoscritto Storia della valle del Senio di Linguerri Antonio", 1894, ms. conservato presso la Biblioteca Piancastelliana di Forlì.
Vincenzo Ballestrazzi, La valle del Senio, orazione recitata da Vincenzo Ballestrazzi, pubblico retore in Casola Valsenio, nella tornata degli accademici industriosi delli 3 febbraio 1837, Imola, Benacci.
Luigi Biffi, Memoria intorno alle condizioni dell'agricoltura e della classe agricola nel circondario di Faenza, Faenza, Tipografia di Pietro Conti, 1880.
Manuale domestico-tecnologico dei modi, proverbi, riboboli, idiotismi della Romagna, Persiceto, Tipografia Giambatistelli e Brugnoli, 1863.
Antonio Morri, Vocabolario Romagnolo-Italiano, Faenza, Tipi di Pietro Conti, 1840 (Ristampa anastatica, Forni Editore Bologna, 1969).
Gianni Quondamatteo, Grande dizionario gastronomico romagnolo, Imola, Grafiche Galeati, 1978.
Pellegrino Artusi, La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene, Roma, Newton Compton, 1986.
Vittorio Tonelli, A tavola con il contadino romagnolo, Imola, Grafiche Galeati, 1986.
Giacomo Castelvetro, "Brieve racconto di tutte le radici, di tutte l'erbe, di tutti i frutti, che crudi o cotti in Italia si mangiano", in Gastronomia del Rinascimento, Strenna UTET, 1974
Il recupero culturale Antonio Quarneti, "Toponomastica di Casola Valsenio", dattiloscritto inedito.
Antonio Quarneti, Toponomastica di Brisighella, Faenza, Edit Faenza, 1995.
Aldo Spallicci, Proverbi romagnoli, Firenze, Giunti Ed., 1996.
Valeria Miniati, Proverbi e modi di dire in Romagna, Ravenna, Longo Editore, 1989.
Eraldo Baldini - Giuseppe Bellosi, Calendario e folklore in Romagna, Ravenna, Edizioni Il Porto, 1989.
Ermanno Silvestrini - Eraldo Baldini, Tradizioni e memorie di Romagna, Ravenna Longo Editore, 1990.
Gianni Quondamatteo, Dizionario romagnolo (ragionato), Villa Verucchio (FO), Tipolito "La Pieve", 1982.
Giuseppe Bellosi, La Rumâgna dj indvinèl, Lugo, Walberti Edizioni, 1979.
Giuseppe Bellosi, Sotto mentite spoglie. Indovinelli romagnoli inediti del XVIII e XIX secolo, Rimini, Maggioli Editore, 1988.
Giuseppe Pittàno, Frase fatta capo ha, Bologna, Zanichelli, 1992.
Giovanni Cairo, Dizionario ragionato dei simboli, Bologna, Forni Editore, 1967 (ristampa anastatica).
Michele Placucci, Usi e pregiudizj dei contadini della Romagna, Bologna, Arnaldo Forni Editore, 1984 (ristampa anastatica)
Valerio Lupano, L'uso delle erbe nella magia, Milano, Orsa Maggiore Editrice, 1991.
Il recupero materiale Vittorio Tonelli, Medicina popolare romagnola, Imola, Grafiche Galeati,
1981.
Luciano Palotti, "Romagna delle piante dimenticate", Romagna ieri, oggi, domani; Newton Periodici; a.III, n.13 (Gennaio 1990); a.III, n.18 (Giugno 1990).
I frutti Pietro Andrea Mattioli, I discorsi di M. Pietro Andrea Matthioli, sanese, medico cesareo, nelli sei libri di Pedacio Dioscoride anazarbeo, della materia medicinale, Venezia, Vincenzo Valgrisi, 1568 (Ristam- pa a cura di Roberto Peliti, Julia Editrice, Roma, 1967).
Luigi Pomini, Vegetali, alimenti medicamenti dell'uomo, Saluzzo, Edizioni Minerva Medica, 1979.
Guarire con le erbe, Bussolengo (VR), Demetra, 1993.
Azienda Regionale delle Foreste dell'Emilia Romagna, Alberi e arbusti dell'Emilia Romagna, Bologna, 1983.
AAVV, Piccoli frutti, castagno e fragola, ("Il divulgatore", n. 8, 15 aprile 1990, a cura della Provincia di Bologna).
Ennio Lazzarini, Le piante medicinali. Erbe spontanee e coltivate dell'Emilia Romagna; Bologna, Regione Emilia Romagna, 1992.
Arturo Ceruti, Piante medicinali e alimentari, Torino Loescher Editore.
Alberto Fidi, Le malattie curate con le erbe e piante officinali, Milano, Mila- no, Casa editrice A. Gorlini,1954.
Istituto Geografico De Agostini, "I vegetali", Enciclopedia Italiana delle
Scienze, Novara, 1968.
Luciano Palotti, "Romagna delle piante dimenticate", Romagna ieri, oggi, domani; Newton Periodici; a.II, n.8 (Agosto 1989); a.II, n.11
(Novembre 1989); a.III, n.14 (Febbraio 1990); a.III, n.15 (Marzo 1990); a.III, n.21 (Ottobre 1990); a.IV, n.25 (Febbraio 1991).
I disegni sono tratti da I discorsi di M. Pietro Andrea Matthioli, sanese, medico cesareo, nelli sei libri di Pedacio Dioscoride anazarbeo, della materia medicinale, pubblicato a Venezia nel 1568

Recupero materiale

La ripresa di interesse verso piante e frutti messi in disparte nell'ultimo dopoguerra, significa recupero materiale di quei frutti come alimento e "medicina" naturale e recupero di quelle piante come elementi tipici del paesaggio della collina romagnola.
Per quanto riguarda l'aspetto alimentare e nutrizionale, se ne parlerà nella secondo parte, frutto per frutto, per lasciare invece qui spazio alle piante e al potere medicamentoso e salutare di gran parte dei piccoli frutti autunnali. Un aspetto importante per la sopravvivenza della popolazione contadina della collina che abitava in case lontane dai centri abitati, dove si trovavano i medici condotti, e che quasi sempre non era in condizioni economiche tali da potersi approvvigionare delle medicine necessarie. Da qui la necessità di trovare sul posto le "medicine" o i mezzi per curarsi delle piccole afflizioni, rappresentati da erbe e frutti, i cui poteri erano conosciuti soprattutto dalle donne, che univano al piacere del palato un qualche effetto salutare.


Contro le scottature era particolarmente efficace un unguento ricavato dalle noci che, spezzate a metà e calate intere nell'olio della padella, producevano un liquido denso, da filtrare subito dopo la bollitura. Curiosa era anche la preparazione di un altro unguento con i gusci di noce che venivano riempiti di olio e sego di pecora ed allineati sulla graticola. Dai minuscoli tegamini a barchetta si estraeva un unto da impastare a freddo sulla ustione, con un ciuffetto di peli di gatto. A loro volta le giuggiole facevano parte, insieme ai datteri, ai fichi e all'uva passa, dei cosiddetti quattro frutti pettorali ed entravano quindi nella formula di molte pozioni pettorali ed emollienti. La marmellata di more veniva somministrata ai bambini afflitti dal mal di gola che però dovevano resistere alla golosità per mangiarla molto lentamente, perché potesse produrre qualche effetto sulla parte malata. Un trattato del XVIII secolo ricorda che "i melagrani o pomi granati, sono un ottimo frutto per diversi cibi, ma spezialmente per ristorare i febricitanti, spegnendo in loro l'ardente sete dalle cocenti febri generata".
 
La ripresa di interesse verso i deliziosi frutti che si producevano e si consumavano un tempo nella collina romagnola è stata accompagnata da un ugual interesse verso le piante che li producono, per ricostituire quelle piccole macchie di verde e di colore formate da noci, avellani, sorbi, nespoli, giuggioli, melograni, gelsi, mandorli, sorbi, azzeruoli che, insieme ad altre piante, fiancheggiavano le case coloniche di un tempo. Non solo: queste piante possono abbellire i giardini pubblici e privati, soffocati da piante sempreverdi "forestiere", con forme e colori che oggi appaiono nuovi e soprattutto possono restituirci il senso della stagionalità attraverso il cambiamento dei colori, la crescita e la caduta delle foglie e così via.

Un recupero che ben illustra Luciano Palotti che sulla rivista Romagna,ieri, oggi, domani, ha tenuto per molto tempo una rubrica sulle piante dimenticate. "Uno dei caratteri distintivi dei giardini delle nostre città - scrive Palotti - è, nella generalità dei casi, la cattiva scelta delle specie arboree utilizzate. Questo aspetto è oltremodo evidente negli esigui spazi verdi delle case costruite nel periodo che va dall'immediato dopoguerra fino a metà degli anni Settanta. Il ricorso a materiale scadente, purché fosse verde e di scarso impegno finanziario, era prassi ricorrente. L'uso indiscriminato di abeti, cedri, cipressi dell'Arizona era giustificato dal loro facile reperimento... Questi alberi si sono rapidamente trasformati in cupi e fastidiosi giganti. Sollevano muretti e marciapiedi con le loro radici, non permettono l'utilizzo degli spazi sottostanti la loro ampia chioma, nei quali assai raramente cresce il prato o fiorisce un arbusto.

Con i loro minuscoli aghi intasano fognature e grondaie, i rami sia addossano ai muri e quasi pretendono di entrare dalle finestre, attraverso le quali la luce non filtra mai, né in estate, tanto meno in pieno inverno... La visione d'insieme poi è poco apprezzabile: intere vie monocolore pressochè prive di fioriture, senza un fogliame diverso dall'altro. Tutto è verde cupo, in ogni stagione, e tutto è esageratemente grande. E pensare che la possibilità di scelta delle piante ornamentali é di una vastità incredibile, sia per dimensioni, sia per forme e colori. Prendiamo ad esempio un alberello poco esigente, dalla chioma arrotondata, estremamente economico nell'acquisto, generoso di splendidi fiori e di squisiti frutti, con una variopinta tavolozza di colori autunnali: il nespolo".

Altre piante possono vantare la stessa bellezza, ed anche superiore, come è il caso del melograno e del giuggiolo. "Tutti gli alberi ed arbusti che i nostri contadini piantavano in prossimità delle case coloniche - ricorda Luciano Palotti - avevano prima di tutto una funzione pratica: ogni pianta non veniva messa a dimora casualmente, ma per fornire cibo e cure per malanni, oppure alimenti e riparo al bestiame, o per mitigare gli eccessi del clima. La funzione estetica era solamente un aspetto secondario.
Pochissime specie hanno avuto il privilegio di essere ospitate principalmente per la loro bellezza; di queste nelle nostre campagne due hanno sempre avuto un posto di rilievo: il giuggiolo ed il melograno... Basti pensare al fatto che il loro fogliame non perde mai la sua straordinaria brillantezza, neppure quando la calura e la siccità estive fanno assumere a tutte le altre piante un aspetto sofferente e dimesso...Splendidi esemplari di giuggiolo esistono ancora qua e là a ridosso di muri e ruderi, sempre in posizione riparata e ben soleggiata, segno che la loro coltivazione era comunque assai diffusa. In questi posti esso esalta la propria bellezza, dimostrando il detto che ha il potere di rendere esteticamente gradevoli luoghi e stazioni anche poco belle. è evidente pertanto che l'utilizzo di questo alberello, specialmente nei giardini moderni, spesso assai poveri di bellezza, è quanto mai opportuno".

Recupero culturale

Recuperando i frutti di un tempo non si ritrovano solo i sapori del passato, ma si recupera anche un mondo fisico e culturale che ci riavvicina alla natura, ad un modo di vivere e di alimentarci più semplice e più sano, che permette anche di riallacciare i legami con la cultura popolare contadina in tutte le sue espressioni, così da poter ricordare e capire il passato. Solo a nominare frutti come le azzeruole, le corniole, le nespole, le sorbe, le castagne, viene alla memoria il ricordo della collina di un tempo, con le consuetudini, la sua gente, le abitudini alimentari, le case coloniche, i cui nomi in qualche caso hanno avuto origine proprio da quei frutti.
In comune di Casola Valsenio troviamo Bagarello (Trario) che rimanda a baca o bacarello, cioè al sorbo selvatico; Castagnardizzo (Settefonti), Castagnarda (Montefiore), Maroneto (Sant'Andrea) e Castagneto (Mongardino) che richiamano un terreno a castagni; Cornazzano (Riovalle) lascia intendere l'esistenza di un boschetto di cornioli o comunque di un terreno impiantato a cornioli; Melatella e Meleda (Settefonti) richiamano un boschetto di meli ed infine Sorbatella (S.Rufillo), cioè boschetto di sorbi.

I frutti in questione sono entrati anche nella cultura popolare della collina faentina attraverso i proverbi, gli indovinelli, i modi di dire e addirittura le previsioni del futuro.
I proverbi sono sentenze nate dalla esperienza e dalla osservazione e trasmesse oralmente ( la rima serve infatti per ricordarle meglio) di generazione in generazione, come regole di vita ed espressione della saggezza popolare. La caratteristica del giuggiolo di essere l'ultima pianta a germogliare a primavera e la prima a spogliarsi in autunno serviva, ad esempio, per ricordare una proverbiale regola salutare: Smânte quând us amâna è zòzle, e amânte quând ch'u se smâna (Svestiti quando si veste il giuggiolo e vestiti quando si spoglia). Ed ancora c'era sempre chi ricordava che E prem frot l'è la mandulâna,/ l'ultum l'è la nespulâna (Il primo frutto è la mandorlina,/ l'ultimo è la nespolina), oppure Per San Martèn,/ nèspul e bon vèn, cioè per San Martino (11 novembre) si devono mangiare le nespole e bere vino.

I contadini romagnoli, durante le veglie invernali nelle stalle, praticavano spesso il gioco dell'indovinello. Era un esercizio di agilità mentale, un passatempo ed anche un motivo di allegria a cui partecipavano adulti e bambini, uomini e donne, che a turno dovevano indovinare oggetti di casa o attrezzi da lavoro, funzioni umane, sentimenti e aspetti della natura: insomma tutto ciò che stava loro attorno, nascosto sotto una veste apparentemente misteriosa. Per i bambini rappresentava anche un mezzo di acculturazione, di conoscenza del mondo in cui si sarebbero poi trovati a vivere, degli oggetti che avrebbero poi usato o degli alimenti di cui si sarebbero poi nutriti, compresi quei frutti che maturavano negli alberi vicini alla casa colonica come noci, ciliegi, nespoli, sorbi, azzeruoli, cotogni.
Uno degli indovinelli più famosi riguarda la noce: A j o ôna matrena znena znena:/ u-j sta quatar tirazen d'pâ (Ho una madiettina piccola piccola:/ ci stanno quattro tierine di pane).

La melagrana si nascondeva sotto questi versi: Grôs cum 'na pagnoca,/ stil cum 'na garnêla d'grân,/ dòlz cum e mél,/ amêr cum e fél (Grosso come una pagnotta,/ sottile come un chicco di grano,/ dolce come il miele,/ amaro come il fiele). Curioso e molto astuto è anche l'indovinello che si riferisce alla conformazione delle nespole, così descritte: Zânqv êl e zanqv òs/ al n'è bôni d'saltè un fòs (Cinque ali e cinque ossa/ non sono capaci di saltare un fosso).
Una delle caratteristiche degli indovinelli romagnoli, anche di quelli proposti in presenza dei bambini, era il doppio senso, cioè la metafora di carattere sessuale che lasciava intendere una risposta che si rifaceva ad organi o atti sessuali mentre quella giusta rimandava ad oggetti comuni o innocenti attività del vivere quotidiano.

Gli indovinelli con il doppio senso erano visti con molta indulgenza, trattandosi in fondo di un innocente divertimento, tanto che un parroco di S. Maria in Carpinello di Forlì ha lasciato, all'inizio del '700, una raccolta di "Indovinelli fatti in lingua rusticale e vernacula per passare la malinconia e l'otio della villa" tra i quali molti presentano un accentuato doppio senso.
Ecco come viene descritta sotto metafora la noce: Tant la m'tira, tant la m'slerga/ ch'la me squarza la mi braga;/ poi la mena in su due bott/ e la m'amaca il mi palot (Tanto mi tira e tanto mi si allarga/ che mi squarcia le mie brache;/ poi batte sopra due colpi/ e mi ammacca le mie pallotte). La mela da rosa è invece nascosta sotto queste rime: A i ho pur bella cosa,/ ma a l'ho querta e l'ho nascosa;/ s'u la vdis al mi moros/ u la uvreb, ch'l'è trop golos (Ho pure la bella cosa,/ ma l'ho coperta e l'ho nascosta;/ se la vedesse il mio moroso/ la vorrebbe, ché è troppo goloso).

Come è naturale, anche i modi di dire, cioè quelle espressioni che prendono a riferimento aspetti della natura per indicare o esaltare virtù, difetti o pregi degli esseri umani, hanno attinto a piene mani dai frutti che consumavano i contadini. Per indicare una persona di bell'aspetto ma di animo cattivo si diceva: L'é la fôla dla bèla avûlana: dâtre l'é bròtta e fôra l'sana (è la favola della bella avellana: dentro è brutta e fuori è sana). Numerosi sono i modi di dire che si rifanno alle mele, uno dei frutti più diffusi tra la popolazione della campagna.
Di un volto roseo che sprizzava salute si diceva: L'ha 'na faza cum 'na mela da rôsa (Ha un viso come una mela da rosa); mentre una donna soda e piena veniva descritta così: La pé 'na mela garnida (Sembra una melagrana).
Di qualcosa che è acerbo o che allappa si dice: Asérb cum 'na mela cudogna (Acerbo come una mela cotogna). E chi protestava invano per cose più grande di lui, veniva commiserato con: Ona nus 'te sac la fa poc armôr (Una noce nel sacco fa poco rumore).
Molti di questi modi di dire sono sopravvissuti al tramonto della civiltà e della cultura contadina e sono stati assorbiti dalla nostra società, continuando ad essere utilizzati anche da chi cita giuggiole e nespole senza averle mai assaggiate. Oggi infatti non è raro udire "Col tempo e con la paglia maturano le nespole", nel senso che ogni lavoro richiede il suo tempo.
Un altro modo di dire tuttora diffuso è l'"Andare in brodo di giuggiole", per indicare lo struggersi dalla contentezza o dal piacere. In realtà le giuggiole non c'entrano perché non fanno brodo. La frase è piuttosto la corruzione di un precedente "andare in brodo di succiole", come è chiamata nell'uso popolare toscano la ballotta, cioè la castagna cotta nell'acqua con la sua scorza, ma sempre di frutto dimenticato si tratta.

L'economia contadina, e spesso la stessa sopravvivenza della famiglia colonica, dipendeva dal buon andamento della stagione agricola e del raccolto. Per questo in passato erano numerose le pratiche rituali per conoscere o favorire il futuro, cercando di interpretare i segni che la natura mandava.
Particolare attenzione era rivolta alla crescita delle noci perché, come affermava la tradizione, quând che al nôs al ven a quatar, / u j è de pân par tot al matar (Quando le noci sono raggruppate per quattro,/c'è pane per tutte le madie), mentre, all'opposto, quând che la nôs la fa è castlèt,/quei ch'i ha dè grân ch'i 'l tegna stret (Quando la noce fa il castelletto,/quelli che hanno del grano lo tengano stretto).
Ovviamente era importante anche conoscere ciò che riservava il futuro nel campo della salute, dell'amore, del denaro e dell'andamento familiare, in primo luogo le morti e le nascite. Per questo si osservava la produzione dei noccioli perché il proverbio sosteneva che "Annata di noccioli, manata di figlioli". La nocciola, per il solido involucro è infatti considerata fin dall'antichità l'immagine del bambino racchiuso nell'alvo materno.

Recuperando gli antichi frutti, si recupera anche il loro patrimonio simbolico, un aspetto non secondario per una società apparentemente moderna e razionale qual è la nostra, ma ancora sensibile al mistero; a ciò che ci sta attorno ma non comprendiamo; alle influenze positive o negative degli astri e della natura che cerchiamo di interpretare e conoscere anche attraverso le sue espressioni materiali, come le piante e i loro frutti. Si tratta di simboli che spesso vengono da culture molto lontane e che sono arrivati fino a noi attraverso il filtro delle generazioni che sono seguite l'una all'altra.
Gli antichi, ad esempio, consideravano i cotogni simbolo di felicità coniugale. Per legge di Solone si faceva tributo agli sposi ateniesi di cotogni e i romani ne decoravano le erme tutelari dei talami nuziali. L'origine probabilmente si deve alla prerogativa di questo frutto di conservare il suo profumo, così che il cotogno è anche il simbolo della costanza. Nelle vecchie case contadine romagnole era diffusa l'abitudine di porre una fila di cotogni sull'armadio della camera da letto per profumare la stanza grazie alla loro fragranza persistente.
La castagna, che nella valle del Senio è conosciuta soprattutto nella più pregiata varietà del marrone, rappresenta per la forma e il nome che la assimilano ad un testicolo, un segno di fertilità, di vitalità e di potere generativo. Per questo la sera del 25 novembre, Santa Caterina, che tradizionalmente dava inizio all'inverno, era usanza che il moroso facesse visita alla fidanzata facendosi precedere dal bracco, una persona anziana ed esperta incaricata di far filare tutto liscio fino al matrimonio, il quale reggeva un sacchetto di marroni che, cotti sulla fiamma del focolare o bolliti con le foglie di alloro, avrebbero rallegrato i convenuti e favorito un matrimonio ricco di figli.


Anche il passaggio dell'anno era un momento propizio per i riti divinatori cioè per prevedere e favorire il futuro. Nel mondo contadino di un tempo il periodo di passaggio da un anno all'altro iniziava per Natale e terminava la notte dell'Epifania, dedicata agli ultimi e più importanti riti per i quali, per i motivi detti, si utilizzavano le castagne.

Tra gli Usi e pregiudizj dei contadini della Romagna raccolti da Michele Placucci in occasione della rilevazione napoleonica del 1811, troviamo a proposito della Epifania: "Nella sera poi si estrae la così detta ventura. Si uniscono in numerosa comitiva di parenti, di amici; e se hanno castagne tante ne prendono, quante sono le persone, ed in vece di quelle, tanti grani di formentone, o di fava, tra i quali uno ne segnano: poi si dispensano per vedere a chi tocca la ventura, la lestezza, la pigrizia, l'accorgimento, e quante altre fantoccerie vengono ad essi in capo; e quelli a cui volta per volta tocca la castagna, o grano segnato, quegli è il fortunato, ed ottiene per la ventura il premio depositato, quello è il più lesto, il più pigro, il più accorto".

I frutti dimenticati:storia e tradizione popolare

Le prime citazioni dei frutti dimenticati, cioè di frutti prodotti da antiche cultivar oggi abbandonate, o quasi, come azzeruoli, corbezzoli, avellani, cornioli, cotogni, giuggioli, castagni, melograni, mandorli, certe varietà di meli e peri, mori, nespoli, sorbi, le troviamo nel tardo Medioevo, man mano che si sviluppa l'arboricoltura con una progressiva domesticazione della raccolta dei frutti spontanei. Negli statuti comunali romagnoli successivi al Trecento, tra gli arbores domesticae, troviamo citati: nuces, olivae, ficus, amygdali, pruni, avellanae, persici, mori, piri, mali, melagranata, cerasi, castanae domesticae.
Nel corso dei secoli le citazioni e le descrizioni si fanno via via sempre più frequenti e precise e questi frutti entrano anche nelle cronache quotidiane della valle del Senio. Quando, ad esempio, la mattina del 19 ottobre 1506, Papa Giulio II sostò a Palazzuolo nel corso di una faticoso trasferimento da Forlì a Imola attraverso le strade della montagna, quel piccolo comune offrì al pontefice e al suo seguito una frugale colazione con pane, vino e pere spadone. In una cronaca di Casola Valsenio dell'anno 1559 risulta che "in vista delle grazie ottenute dal Presidente di Romagna venne a lui fatto un piccolo dono di sei corbe di Maroni, di dodici paia di Caponi, di libre cento di Formaggio Marzola, di cento pomi da Rosa dette mele Paradise, di quaranta Tordi e due Lepri".
Più tardi troviamo descrizioni più dettagliate anche sulla presenza degli alberi da frutto. Nell'orazione La valle del Senio del 1837, Vincenzo Ballestrazzi, elencando le specie vegetali più diffuse nella vallata annovera "l'acero, il cornio, l'irsuto corbezzolo, il mirto selvaggio" e, a proposito del castagno, scrive: "Tutto nei nostri monti è calcato dè suoi rami felici: i suoi frutti o molli, o secchi aggustano: da lui è l'unico fonte che sostenta la vita del montanaro, che gl'imbandisce la cena, che gli compra il grano e le vesti". E poco più di quarant'anni dopo, Luigi Biffi, nella Memoria intorno alle condizioni dell'agricoltura e della classe agricola nel circondario di Faenza scrive: "Le piante arboree che crescono nel circondario di Faenza, notando che ne espongo i nomi con ordine tale da indicare fra le prime quelle più diffusamente coltivate e man mano quelle che più raramente si incontrano, sono - Olmi - Quercie - Gelsi - Oppii - Pioppi - Gattici - Peri - Meli - Prugni o Susini - Peschi - Ciliegi - Fichi - Albicocchi - Sorbi - Salici - Olivi - Noci - Castagni da frutto - Mandorli- Nespoli - Giuggioli - Platani - Acacie - Pini - Nocciuoli - Avellani - Melagrani - Vimini o Salici gialli - Frassini - Tigli - Azzeruoli - Castagni d'India - Aceri - Elici".
Piante come meli e peri erano presenti in numerose varietà, risultato di innesti, di esperimenti e di adattamenti secolari, indicate comunemente con termini dialettali che si rifacevano alla forma, al colore, al sapore, al periodo di maturazione di frutti conosciuti come méla da rosa (mela rosa), méla apia (mela appiola o casolana), méla rèzna (mela ruggine), méla musabò (mela arpiona), méla zôgna (mela giugnola), méla piatlôna (mela panaja), méla ranâtta (mela ranetta), méla pupêna (mela poppina), méla franzesca (mela francesca), méla cucôna (mela calvilla), méla durona, méla rôssa, méla righeda. Per quanto riguarda le pere si devono citare la péra asnazza (pera sangermana), péra biancôna (pera biancona), péra brôtta e bôna (pera bugiarda, detta anche brutta e buona), péra butira (pera burrosa), péra da l'inverân (pera dell'inverno o vernereccia), péra dòcca (pera spina o cosima), péra garôfana (pera garofana), péra limôna (per arancina), péra muscatella (pera moscadella), péra rêzna (pera ruggine), péra spadôna (pera boncristiana o spadona), péra vuipâna (pera volpina), péra zôgna (pera giugnolina), péra zucharâna (pera zuccherina).
I prodotti delle piante da frutto domestiche o spontanee che crescevano vicino alle case coloniche, nei campi o nei boschi, erano destinate al consumo domestico o al piccolo mercato locale. Oggi mangiare castagne, noci, nocciole, giuggiole, azzeruole, melegrane e così via, può apparire un piacere del palato e così era anche in passato, quando nelle sere di veglia si consumavano i frutti conservati nei solai.


Frutti che aiutavano anche a combattere meglio il freddo dell'inverno grazie al loro potere calorico: il gheriglio della noce, ad esempio, costituisce un alimento quasi completo, con un altissimo numero di calorie. Essi rappresentavano gli strumenti della sopravvivenza anche dal punto di vista psicologico: mettere al riparo nei grandi solai noci, avellane, mandorle, castagne, noci, corniole, cotogni, giuggiole, melegrane, nespole, pere, mele e sorbe, in attesa della maturazione o per la conservazione, dava sicurezza e permetteva di affrontare l'inverno con la consapevolezza che, in ogni caso, c'era qualcosa da mangiare, così come era o insieme al pane.
Ma alla lunga anche questi frutti non risultavano più tanto appetibili, perché il loro consumo era quasi obbligatorio, non essendoci molte alternative.

Sintetizzano bene questo concetto due detti popolari inerenti alle noci. Dice il primo: Pân e nus,un magnè da spus (Pane e noci, un mangiare da sposi), al quale si contrappone: Nus e pân,un magnè da cân (Noci e pane un mangiare da cani).
Pane fresco e noci rappresentavano infatti per il contadino una parca ma gustosa colazione che, però, se ripetuta, si poteva trasformare in un mangiare da cani, nel senso che identificava una condizione economica misera.
Lo stesso si può dire per i marroni e le castagne, freschi o sfarinati, cotti o bolliti, rappresentavano per la popolazione dell'alta valle del Senio la componente alimentare più importante da novembre fino a marzo. è vero che l'ingegno e la fame della popolazione montanara erano riusciti nel corso di secoli ad inventare tanti modi di cucinarle (aròst, balôs, castron, spasimanti, cuciarùl, castagn sechi, polenta, castagnâz), ma anche per le castagna il suo consumo si ripeterà ogni anno e quindi era un cibo sempre meno appetibile e anche motivo di malattie dovute alla monoalimentazione.

Anche questa condizione è resa bene da una filastrocca dell'alta valle del Senio che recita: La maténa a colaziô,/ socce e lebbrocce,/ castagne e marô./ E dé a desné,/ socce e lebbrocce,/ castagne e brusé./ E la sira pu da zâna,/ socce e lebbrocce,/ castagne e farâna. (La mattina a colazione,/ le ballotte,/ castagne e marroni./ Il giorno a desinare,/ le ballotte,/ castagne e bruciate./ E la sera poi da cena,/ le ballotte,/ castagne e polenta).
Così che, nel dopoguerra, quando la popolazione contadina ha via via abbandonato l'alta collina, queste piante sono state abbandonate e i loro frutti sono stati dimenticati senza un gran rimpianto. Un abbandono a cui hanno contribuito anche esigenze di mercato nuove e diverse, nuovi sistemi di conservazione e la trasformazione della società italiana da agricola in industriale, con conseguente scomparsa della civiltà contadina e delle antiche abitudini alimentari della popolazione della campagna.
Questa, identificando quei frutti come un "mangiare povero", appena ha conquistato un certo benessere tra gli anni Cinquanta e Sessanta, ne ha abbandonato il consumo per scrollarsi di dosso, così come è avvenuto per il dialetto, un segno distintivo e palese di una condizione sociale ed economica inferiore. La classe borghese consumava sì quei frutti, ma in modo molto più limitato ed elaborato, così che essi conservavano intatto tutto il fascino alimentare e il piacere per la gola. Basta scorrere La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene, pubblicato da Pellegrino Artusi circa un secolo fa, per trovarvi una decina di ricette dedicate agli stessi frutti consumati dai contadini, ma qui sono presentati in una versione ben più elaborata e appetibile: budino di mandorle tostate, dolce di marroni con panna montata, composta di cotogne, soufflet di castagne, gelatina di cotogne, conserva di azzeruole e conserva di more.
Il recupero degli aspetti positivi del mondo contadino, della sua cultura, dei suoi modi di vita e delle sue abitudini alimentari, che si è affermato tra gli anni Ottanta e Novanta, ha riproposto il consumo di frutti come azzeruole, corbezzoli, nespole, melegrane, sorbe, corniole e così via. Frutti dai sapori e dai profumi carichi di novità per chi non li ha assaggiati in passato e di suggestione per chi li conosceva ma che in non pochi casi li ha quasi dimenticati.
Ed oggi ritornano grazie ad agricoltori che, per amore o nostalgia del passato, hanno salvato dalla morte vecchie piante o ne hanno collocate di nuove e grazie anche ad iniziative come quella della "Festa dei frutti dimenticati" di Casola Valsenio. Una festa che li ripropone alla attenzione di turisti, visitatori, studiosi e di chi non li ha finora conosciuti sotto l'aspetto alimentare, ma solo come elementi identificativi di una condizione ambientale ed umana tipica della collina faentina e più in generale di quella regionale. Ce lo ricorda il modenese Giacomo Castelvetro, espatriato a Londra nella prima metà del XVII secolo, dove scrisse un "Brieve racconto di tutte le radici, di tutte le erbe, di tutti i frutti che crudi o cotti in Italia si mangiano", per ricordare, sul filo della memoria e della nostalgia, i sapori e i profumi della sua terra, comprese mandorle, mele paradise, nocciole, noci, giuggiole, corniole, melegrane.